Il motivo dello specchio costituisce un tòpos ricorrente in numerose rappresentazioni pittoriche. Ad esso alcuni studiosi attribuiscono enorme valore simbolico, in quanto non assumerebbe una funzione puramente estetica, ma costituirebbe la sintesi di una particolare visione filosofica e culturale.
Michel Foucault in Les mots e les choses (1966) analizza la funzione dello specchio che compare nel dipinto di Velàzquez Las meninas (1656). L'opera, che è stata definita dal pittore Luca Giordano come la "teologia della pittura", costituisce uno studio archeologico sui processi di formazione del sapere. In essa Foucault individua una rappresentazione che porta in scena se stessa e libera ormai da ogni rapporto con il soggetto, si presenta come "pura rappresentazione". D'altra parte lo specchio, diversamente da quanto accade nella pittura fiamminga, non svolge una funzione duplicativa, al contrario, servirebbe, secondo Foucault, a portare all'interno del quadro ciò che si trova all'esterno; dunque, lo sguardo del pittore e quello dell'osservatore. Ma poichè sono entrambi visibili nella scena, lo specchio restituisce, in realtà, l'immagine del re e della regina, che, pur facendo la loro comparsa unicamente nel riflesso, risultano essere i destinatari di tutti gli sguardi rappresentati e costituiscono il vero punto focale del dipinto. Secondo Foucault, andando oltre i motivi puramente formali, la raffigurazione rivelerebbe, sul piano filosofico, la fondazione di una nuova epistéme diffusasi nell'arte europea, che interpreta il rapporto tra linguaggio e cultura come un rapporto infinito, in cui "ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice" (Foucault, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane, 2004).
Foucault definisce questa "storia delle condizioni di possibilità", in cui devono "apparire le configurazioni che hanno dato luogo alle varie forme della conoscenza empirica", come un'archeologia del sapere.
Allo stesso modo del metodo iconologico di Panofsky, anche quello archeologico è volto a scoprire le tendenze essenziali della mente umana, ma questa è ritenuta conoscibile unicamente nel suo manifestarsi sulla superficie degli oggetti.
Panofsky, che analizza l'opera di Van Eyck "Ritratto dei coniugi Arnolfini", individua come temi centrali della raffigurazione il matrimonio e l'allegoria della maternità, e considera lo specchio emblematico dell'opposta visione che la pittura fiamminga e quella italiana hanno dello spazio. Al contrario della prospettiva geometrica dell'arte italiana rinascimentale, caratterizzata dalla presenza di un unico punto di fuga centrale e di una sola fonte di luce, quella dei dipinti fiamminghi utilizza più punti di fuga e una linea dell'orizzonte elevata. In tal modo, essa rende lo spazio avvolgente, mentre la luce illumina la totalità degli oggetti rappresentati, inclusi i più piccoli. Se, dunque, nel primo caso l'osservatore ha una visione completa della scena e non risulta partecipe di ciò che accade, nelle opere dei pittori fiamminghi lo spettatore percepisce la sensazione di essere direttamente coinvolto nella raffigurazione.
Attraverso la "totale santificazione del mondo visibile" gli oggetti di uso quotidiano fungono da rappresentazioni simboliche delle virtù morali e teologiche. Secondo Panofsky, infatti, agli elementi delle nature morte Van Eyck e i pittori fiamminghi suoi contemporanei affiderebbero significati nascosti, riconducibili ad un programma simbolico prestabilito.
Sia Foucault che Panofsky interpretano l'opera d'arte come una miniera di significati nascosti, riconducibili ad ambiti disciplinari diversi dalla storia dell'arte. La loro può essere, dunque, considerata una grammatica dello spazio, in cui ogni elemento costituisce un segno dotato di significato, proprio come accade con il codice linguistico saussuriano.
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